C’era un tempo in cui non potevo sopportare il silenzio.
Le mie orecchie erano talmente sollecitate dai rumori incessanti della città, le auto, i clacson, la musica assordante nei negozi e nei locali… e ancora, a casa, le voci dei vicini attraverso i muri, l’ascensore che sale e scende di giorno e di notte, i mezzi pubblici sulla strada…
Qui, in campagna, il silenzio mi angosciava. Era spesso, profondo, scuro. Lo riempivo di musica di tutti i generi, secondo l’umore e l’occasione. E poi, piano piano, non so nemmeno spiegare come, ho incominciato a rendermi conto che il silenzio non mi disturbava più così tanto. Al contrario, lo percepivo come una pausa, un riposo per le orecchie. E all’improvviso non era più un grande buco nero e freddo, ma quasi una carezza, uno stato mentale, perfino un lusso, di cui potevo godere gratuitamente, tutte le volte che volevo.
E ho scoperto tutti i rumori sommessi che accompagnano la vita in una casa in campagna. La stufa a legna, che è come una persona, una presenza benevola: quando è accesa, la stanza prende vita, acquista un’anima, anche quando in casa non c’è nessuno. Il vento che stormisce tra gli alberi, costante, più o meno violento, e le campanelle che ho appeso ai cespugli nel lato sud del giardino, per sapere quando soffia quello che preferisco. Il canto degli uccelli in primavera e il brusio degli insetti d’estate, concerto naturale ma perfetto. La gallina che mi chiama, le mucche dietro la siepe, gli agnellini nella prateria vicina. Il gatto sul tetto che chiede di rientrare. Il cupo canto del gufo, la sera.
Ho appena rimpiazzato la falciatrice a motore con una manuale, e ora posso tagliare l’erba intorno alla casa senza assordarmi! In cucina, uso il frullatore solo quando è necessario, e amo approfittare del piacere di fare le cose a mano: il picchiettare del coltello sul tagliere ritma il mio lavoro, gli attrezzi manuali accompagnano i gesti antichi meglio di tanti elettrodomestici rumorosi. Adoro ascoltare il secchio che si tuffa nel pozzo, e il cigolio della carrucola quando lo faccio risalire, ed è pesante, e i miei muscoli lavorano. La prima volta che è venuta a trovarmi, mia mamma è scoppiata in singhiozzi vedendomi lavorare come facevano i suoi nonni: ai suoi occhi, quel gesto vanificava gli sforzi, i sacrifici e i progetti fatti per farmi studiare fino alla laurea!
In verità, io credo che l’uomo sia fatto anche per questo. Per fare del lavoro fisico svolgendo i compiti quotidiani, tenendosi in forma, mentre approfitta della natura che lo circonda, e di cui fa parte. Quando lavoro in giardino, o raccolgo le verdure, o guido attraverso la campagna per andare sempre da qualche altra parte, la testa continuamente piena di cose da fare, problemi da risolvere, incarichi da portare a termine… qualche volta, mi fermo. E guardo.
E vedo la vita che prende i sopravvento sui rami secchi dell’inverno, gli alberi ancora spogli su cui le prime foglioline, di un verde tenerissimo, disegnano ricami appena percettibili. Le timide macchie di bianco e di rosa e il giallo oro delle giunchiglie e della forsizia. l’erbetta nuova e i fiorellini selvatici. il cielo, azzurro o nuvoloso, luminoso o grigio cupo, cornice sempre perfetta per questo magnifico quadro vivente. E mi godo tutto ciò. E mi sento ricca, non di cose, ma di sensazioni, non per quello che possiedo, ma per quello di cui posso approfittare.
Detto questo, vorrei condividere con voi una musica che adoro, e che mi accompagna spesso in questo momento in giardino, a casa e in cucina, e che nulla toglie al potere del silenzio.
” Leave your castle » di Coeur de Pirate
Donatella, Sain Julien de Jonzy
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